PIANA DI MONTE VERNA. La vocazione agricola di Piana: nasce l’Associazione Agricoltori Pianesi.

“fattoria come centro di una complessa organizzazione della grande azienda signorile appoderata, generalmente annessa, appunto, a una grande villa padronale”.

Nasce l’Associazione Agricoltori Pianesi, una cosa molto importante vista la vocazione agricola di Piana, da sempre da noi rimarcata. Abbiamo pensato così di fare un breve excursus sull’agricoltura a Piana. In età Longobarda, la coltivazione era un po’ a macchia di leopardo e Mesorinolo era il confine delle terre coltivate.

In seguito, con l’avvento a Caiazzo, della famiglia Corsi che importò un’avanzata concezione d’intendere la produzione agraria, intervenendo con investimenti capitalistici nell’economia terriera, s’impose il modello della “fattoria” che, era “il centro di una complessa organizzazione della grande azienda signorile appoderata, generalmente annessa, appunto, a una grande villa padronale”.

Nel XVIII secolo, quando in Italia presero piede le dottrine fisiocratiche, anche a Caiazzo e dintorni si sperimentarono pratiche agricole d’avanguardia. Il lavoro campestre ha trasformato il paesaggio e la messa a stabile dimora degli ulivi, dei gelsi e delle vigne, così come la coltivazione del grano, ha dato una propria fisionomia al territorio pianese, allora campagna caiatina.

Anteriore al 1615 è una descrizione del contado e della città di Caiazzo, breve e veridica relazione che riporta fedelmente la vita civile ed economica del luogo: “La città di Caiazzo è posta in Terra di Lavoro, 24 miglia discosta da Napoli, 24 da Benevento e 8 da Capua; è posta su di un colle assai fertile, ha quattro belle uscite, ed è di aere molto buono; consta di fuochi (nuclei familiari) 600 circa e ha 2500 abitatori. Il territorio, e il contado, vicino alla città è coltivato: consiste nella maggior parte in vigne, che fanno vini buoni e crudi; in oliveti, che producono oli così buoni e dolci, stimati pari a quelli venafrani, che loda tanto Orazio. Vi sono frutti così d’estate come d’inverno, non solamente bastanti per la città ma da darne fuori. Il territorio del contado è, per la maggior parte, lavorativo e dà grani in grande quantità; vi sono alcune selve fruttifere di ghiande, e inoltre vigne e oliveti. Questo territorio del contado viene coltivato dagli abitatori di sette ville che stanno per esso disperse; una delle quali verso Capua, che è la maggiore di tutte, si chiama la Piana: consta di 300 abitatori circa, e il suo territorio è per la maggior parte arativo.

Un altro villaggio si chiama Li Vascelli e San Silvestro, che è di sette o otto case circa e, per il più, è boscoso il suo territorio, ma vi sono fichi eccellentissimi…Nel contado sono tutti poveri; nella villa della Piana sono solamente quelli di Casa Marocco che possiedono qualche migliaio di scudi di valsente… Carne porcina ne ha in tant’abbondanza che ne manda gran copia in Napoli, e tutti ne tengono salata nelle case loro; le altre carni sono buone e sufficienti; vi è gran copia di animali selvatici, volatili e quadrupedi, né mancano pollami.

Rare volte il pesce giunge dal mare, per essere la città discosta dalla marina 24 miglia; ve n’è, e buono, di fiume; in posti sei o sette miglia vicini vi è una grande quantità di trote, di cui molte sono tanto grosse che pesano 12 libbre. Vi è dovizia grande di prugnoli, di asparagi, tartufi e funghi nelle loro stagioni. Ha formaggi solamente paesani, non cattivi, e a sufficienza, né mancano nella loro stagione i latticini. Patisce un po’ d’erbaggi in estate ma ne vengono dai luoghi vicini quotidianamente e a sufficienza. Insomma, per lo vivere si sta bene, la legna si dà a buon mercato, e vi sono fieni assai…. “ Grande e di pregio era la coltivazione degli olivi. L’agente feudale Pasquinucci, dotato di una perspicacia da provetto agronomo, redasse anche un piccolo trattato sul metodo di raccolta delle olive in Caiazzo: “Quando le olive sono giunte a un punto di maturità e incominciano a cadere, il che succede dopo la metà di novembre, il proprietario dell’uliveto prende quella quantità di uomini e donne che crede sufficiente per la raccolta. Gli uomini portano tutti una scala lunga assai, e stretta secondo il modello, con scalini molto rari e con le due aste che posano in terra, lunghe dalla parte di sotto dopo l’ultimo scalino e appuntite, per poterle fare entrare almeno un palmo nella terra, per liberarsi dal pericolo di una caduta e per non gravar tanto sui rami dell’ulivo. La scala si fa di castagno sottile, per lo più riunita nella cima, e gli scalini non sono sovrapposti e incastrati; ma, per mezzo di un buco, fatti entrare nelle due aste che compongono la scala.

Messe le scale al loro posto e saliti gli uomini in numero almeno di due su ogni ulivo, brucano le olive con le mani, facendole cadere in terra, e per quelle che non scendono giù, tengono una pertica sottile e lunga, con un uncino di legno, e torcono i rami per avvicinarle; e se non possono fare ciò, battono quei rami con la pertica, prendendola in mano dalla parte dell’uncino, e fanno cadere le olive. Sotto l’ulivo si spandono dei lenzuoli di tela grossissima, e le donne pensano a levare le fronde che cadono e a raccogliere le olive che vanno fuori dai lenzuoli. Raccolte le olive, si portano al frantoio, e per far l’olio si macinano senza riscaldarle, e la pasta che sorte dalle macine si getta in una gran pila di pietra viva e si lascia stare una mezza giornata. Tutto l’olio che nel depositarsi rifiorisce (torna in superficie), si toglie e si chiama qui olio vergine. La pasta che rimane si pone nelle gabbie e si stringe sotto il torchio. In ultimo si aggiunge dell’acqua per far uscire l’olio interamente”

Stampa
    comment Nessun commento

    Sii il primo a lasciare un commento alla notizia

    mode_editLascia un commento

    menu
    menu