LETINO. Castello e fiume Lete devono attrarre più turisti.
”Quann a rua Uall chiove a ru Tinu sciocca, figurammc a la povera Rocca” (Quando a Gallo Matese Piove a Letino fiocca, figuriamoci alla povera Roccamandolfi).
di Giuseppe Pace
A Letino mancano punti di richiamo culturali e turistici ben scritti e presentati ai potenziali visitatori in tutti mesi dell’anno e non solo nei mesi estivi. Per ora se indicano solo alcuni anche se sono tanti anche i punti d’attrazione naturalistici come la Fontana dei Palombi. Uno dei primi di tali punti forti d’attrazione turistica-anche per il panorama superbo- potrebbe essere il castello medievale. Un altro è il mitico fiume Lete e le sue spettacolari e suggestive grotte, non penultimo è la grotta di Piscupanni e non ultimo è il diffuso gioco dei birilli. Di questo ultimo punto d’attrazione possibile esiste già un significante monumento (riportato in fotografia personale) non lontano dalla ex sede postale. Per ognuno di queste perle paesaggistiche letinesi va compilato attentamente un cartello esplicativo, ben esposto e commentato in modo realistico. A Letino però, dopo l’Amministrazione Pitocco terminata a metà anni Sessanta, pare che manchino cultori di paesaggio non politicizzati dalla puerile necessità di agganciarsi alla grande storia fosse anche degli anarchici. C’è da sperare in un ritorno alla valorizzazione del costume locale anche dopo la morte di Paolella come Presidente della Pro Loco “Letizia”. Bene è ribadire ai letinesi che nessuno dei locali fu mai un brigante dell’epopea postrisorgimentale del brigantaggio, né aderì alla banda del Matese degli anarco-insurrezionalisti. I turisti non cercano, a maggioranza, solo briganti ed anarchici come in parte successe alla vicina Roccamandolfi, ma là i briganti c’erano e fucilarono, nel 1861, le inermi guardie nazionali a Letino davanti la chiesa madre, in piazza, dopo sentenza sommaria. I letinesi si ritenevano, a torto, più ricchi dei vicini roccolani. A Letino si diceva:”Quann a rua Uall chiove a ru Tinu sciocca, figurammc a la povera Rocca” (Quando a Gallo Matese Piove a Letino fiocca, figuriamoci alla povera Roccamandolfi). Nel 1929 al raduno a Campitello dei costumi tradizionali, vinsero le roccolane per sapere meglio andare a cavallo e le letinesi, con ai piedi, gli scarpitti (quasi delle ciocie) per cavalare bene gli asini. A quel rinomato raduno fascista le letinese erano le uniche con gli scarpitti ai piedi, segno di un maggiore isolamento geostorico e dunque con più tradizione. Ogni uccello tira al proprio nido, dice un antico adagio letinese. L’adagio nasce in una mente semplice, e, senza l’evoluzione sociale che ha coinvolto più massicciamente altri luoghi pedemontani e lontani, permane e si tramanda oralmente dagli anziani. Solo gli uccelli piccoli però tirano al proprio nido fino a quando hanno i genitori che li ospitano e li sfamano. Poi volano via e si fanno altri nidi ed altre uova e uccelli. In Argentina ho visto molti letinesi anziani che avevano dietro la porta d’ingresso una gigantografia del bel paesaggio letinese. Per quasi tutti quegli ex letinesi la mentalità era semplice, poco scolarizzata e vivevano con tanta nostalgia di Letino. Tali emigrati amavano e portavano sempre nel cuore questo piccolo ma grande paese della loro gioventù. A Letino ci vivono poco più di 700 residenti, mentre negli anni dell’esodo in Argentina, 1946-60, i residenti erano circa il doppio. Il territorio di Letino, è quello più montano del Massiccio del Matese. Il paesetto è aggrappato ad un colle esposto al sole che tempera l’aria tagliente dei suoi oltre mille metri di altitudine, presenta un vario e suggestivo paesaggio, che, soprattutto in estate, offre ai turisti aspetti interessanti per ogni esigenza, grazie al fiume Lete, ai vicini e verdi prati e ai boschi di faggio di Capo Sava, Fossate, Campo Ruzzo, Cese, ecc. Splendido il colpo d’occhio sul lago e sulle pendici montane tra le due pieghe montuose di corrugamento appenninico, più alta quella adriatica con la vetta di monte Miletto di 2.050 m di quota. Non ci sono notizie certe sulle origini e dunque la nascita dell’agglomerato urbano (dai Sanniti Pentri, dai Greci, dai Goti e dai pastori transumanti), ma sembra che l’ultima ipotesi sia la più verosimile: il paesetto fu fondato da pastori che portavano le greggi al pascolo estivo sul Monte Prece, e che vi sarebbero rimasti anche nei periodi invernali. Essi, in un primo tempo, si stabilirono attorno alla chiesa di Santa Maria dell’Arco, per poi raccogliersi a San Pietro, da cui poi si trasferirono verso l’attuale Letino. Anche l’ipotesi d’origine dalla Grecia trova riscontro nel costume e nella parlata locale oltre che dall’indole vivace dei letinesi. Un gruppo di nobili guidati dalla principessa Letizia per sfuggire all’espansionismo e dominio degli Ottomani sia capitata sull’alta valle del fiume Lete e ne abbia apprezzato le qualità delle sue acque: fresche, dermatologicamente benefiche e dell’oblio. Dante Alighieri cita il Lete, dove Beatrice esce dal fiume che espia i peccati. Dal lago d’Averno all’alta valle del Lete, è più facile arrivarci lungo i tratturelli transumanti che si intravvedono ancora vicino al reperto fluviale del paleocorso del Lete, a forma di V sulle Rave di Prata S., dove c’è ancora il tratturello che portava ai prati sottostanti e ai più piccoli prati di Pratella. Virgilio nel libro VI dell’Eneide descrive Enea che dopo l’incontro con la Sibilla Cumana, per seppellire Miseno, va nella valle del Lete per incontrare il padre Anchise nei Campi Elisi. Il castello che sovrasta l’abitato attuale di Letino fu costruito dai Longobardi, molto probabilmente, durante il periodo delle invasioni dei Saraceni e dei Normanni, tra il IX e il X secolo e divenne baronia e possedimento di vari feudatari; nel Medioevo appartenne ai Rainone di Prata, successivamente, nel 1168, per volontà di Papa Alessandro III, fu concesso in feudo alla Badessa di San Vittorino di Benevento. Dal 1329, e fino alla prima metà del sec. XVI, Letino divenne feudo della Baronia di Prata. Nel 1770 giunse in mano alla famiglia Carbonelli che mantenne il suo possesso fino al 1806, quando, con l’arrivo delle armate napoleoniche, furono aboliti i diritti feudali. Con la Restaurazione, Ferdinando I di Borbone rifondò il nuovo distretto di Piedimonte, e Letino fece parte, insieme a Ciorlano, Pratella, Fossaceca, Gallo e Prata, del Mandamento di Capriati al Volturno fino al 1926, quando poi quest’ultimo venne unito alla provincia di Campobasso. Indubbiamente le origini e la storia iniziale del casello letinese vanno comparate con quelle degli altri castelli più vicini come Roccamandolfi, abitata da ancora 1000 roccolani. Le prime notizie attendibili che abbiamo sul castello roccolano risalgono al 1195, anno in cui era in corso la guerra tra le truppe sveve dell’imperatore Enrico VI e quelle di Tancredi D’Altavilla, i quali si contendevano il Regno di Sicilia. Ma lo stesso feudo fu al centro della famosa guerra del Molise, nel 1221, quando il conte Tommaso di Celano, vi si rifugiò dopo aver lasciato al sicuro la propria famiglia e gran parte delle truppe al proprio seguito nel Castello di Bojano. Purtroppo la scelta non fu molto felice, il conte Tommaso dovette lasciare il castello durante la notte e rifugiarsi a Celano. Il castello subì così un lungo assedio, al termine del quale tutte le terre del conte di Molise furono confiscate. Anche l’altro castello, quello di Monteroduni, vicino a Letino va preso in esame. Monte di Roduni, forse dal nome di qualche longobardo che l’ebbe in possesso, fu abitato già prima del Mille ed il suo nucleo originario era di piccole dimensioni rispetto a quelle attuali. Si ha una prima notizia della fortificazione di Monteroduni all’epoca di Enrico VI quando Bertoldo di Kunsberg, alla testa di soldati tedeschi e fiorentini, assalì nel 1193 il castello che era tenuto dai fedeli di Tancredi. La cronaca utile è di Riccardo di S. Germano, che non dice nulla sulla struttura urbana di Monteroduni, ma è utile per comprendere come fosse importante il sito nell’ambito dell’organizzazione castellana della fascia mediana del Matese. L’attuale castello certamente non ha nulla a che vedere con l’originaria fortificazione longobarda, anche se con assoluta sicurezza ne occupa una parte fondamentale. Le mura originarie del Castello erano tipicamente mura difensive, molto spesse, e protette da ben cinque torri, una delle quali decisamente più grande ed imponente delle altre. La torre sul lato nordest del castello di Letino presenta ancora evidenti feritoie per la difesa militare e bene è porre un cartello là vicino che illustri sia un po’ di storia che di mito locale. Il castello venne eretto dai Longobardi nel VII secolo e nel secolo XII lo svilupparono ed abbellirono gli Svevi. Esso sta su di un colle che domina, a Nord, l’abitato del paesetto di Letino a quasi 1200 metri di altitudine. Ospitava in maniera permanente una guarnigione avente il precipuo compito di sorvegliare la zona dell’alto Matese. Il castello è di forma quadrangolare con lati lunghi tra i 40 e i 90 metri e ha subito radicali le trasformazioni nel corso dei secoli. Ciò che resta della poderosa cinta muraria è intervallata da cinque torri aventi pianta circolare. All’interno della cinta muraria venne eretta intorno nel 1600 la chiesa di Santa Maria al Castello e nel 188 il maniero diviene il camposanto letinese. Da lassù una veduta sul laghetto di Letino a sud e più spettacolare sul lago di Gallo Matese a nord. La chiesetta che venera Santa Maria al Castello venne ricavata a ridosso dell’ingresso e della cinta muraria ed inglobandone una parte nonché due delle cinque torri di difesa. La facciata è costituita da pietra locale, è a forma di capanna ed evidenzia un portale sovrastato da un piccolo oculo. All’interno, che si presenta a navata unica, si notano quattro altari per ciascun lato oltre il maggiore, in posizione dominante rispetto agli altri. Nel corso dei secoli il Castello e la chiesetta hanno subito numerose trasformazioni. La sentita e partecipata festività di Santa Maria al Castello di Letino, Regina del Matese, ricorre, annualmente, la terza domenica di settembre. Soprattutto per quell’occasione le donne di Letino durante la processione esterna che si snoda per l’intero paesino, indossano il costume tradizionale, che nel paese ancora oggi sopravvive, sfoggiato dalle donne in particolare durante le manifestazioni folcloristiche e religiose. L’attaccamento dei letinesi al culto più per la Madonna a Castello che per San Giovanni, il Patrono, deriverebbe dalla religiosità prima dei Sanniti e poi dei Longobardi. I sanniti erano politeisti e adoravano una dea che stava sulle nuvole del Matese e faceva piovere se necessario per i raccolti. Spesso i gallesi prendevano in prestito la Madonna letinese per fare processioni propiziatorie per la pioggia estiva. Tale dea è stata adorata dallo scrivente a Bojano, in veste di Sacerdote Sannita che sposava i guerrieri Pentri, distintisi in battaglia, durante il Ver Sacrum della Fondazione di Bojano del 2016, che si rifà alle Primavere Sacre del VIII-VII sec. a. C. L’adorazione di Santa Maria al Castello deriverebbe, invece, anche dai Longobardi del VII sec d. C.. quando eressero il castello e il muro sud della chiesa centrale del paesetto, di San Giovanni. Sulla religiosità iniziale dei letinesi si è gia scritto nel saggio “Letino tra mito, storia e ricordi”, presentato al municipio letinese il 14 agosto 2009. Mancherebbe la presentazione del nuovo saggio “Piedimonte M. e Letino tra Campania e Sannio”, che il municipio di Piedimonte M. ha patrocinato, due anni fa. Come scritto nei miei due saggi la cristianizzazione dei Longobardi a Letino non fu immediata poichè praticavano il paganesimo e veneravano divinità femminili legate alla fertilità e alla terra. Dopo adottarono il culto di dei maschili di ispirazione guerriera come Odino. In seguito, durante lo stanziamento tra Norico e Pannonia, si avviò il processo di conversione al cristianesimo. L’adesione alla nuova religione all’inizio fu superficiale e strumentale all’alleanza con i Bizantini; tra la popolazione continuava infatti a sopravvivere la religione pagana. Re Alboino abbandonò il cattolicesimo per abbracciare l’eresia ariana, al fine di ottenere l’appoggio dei Goti ariani contro gli stessi Bizantini. L’affermazione del dominio in Italia e il contatto con la civiltà romana indussero i Longobardi ad una lenta conversione al cattolicesimo che ebbe come promotrice la regina Teodolinda (VI-VII secolo). Ma i Longobardi non perdettero del tutto la propria tradizione culturale, come dimostra ad esempio la diffusione del culto di San Michele, il “guerriero di Dio”, particolarmente caro al ceto guerriero, venerato come santo nazionale nel santuario di Monte Sant’Angelo sul Gargano. Il fiume Lete, noto anche per la pubblicizzata e venduta acqua omonima di Pratella, ha un nome altisonante della storia epica, letteraria e poetica: l’acqua dell’oblio o della dimenticanza. Perché non dirlo? Il fiume circa 2 milioni di anni fa scorreva dall’alto delle Rave di Prata Sannita, dove c’è il reperto fossile geomorfologico a forma di V o valle fluviale. Poi le acque del Lete hanno scavato un percorso di sbocco ad alcune decine di metri più in basso nella montagna carsica formando un sistema magnifico di grotte ricche di stalattiti, stalagmiti e d colonne d’alabastro. Le grotte di Caùto sono situate quasi a ridosso della diga del Lago, sul lato sudovest, su due piani paralleli distanti mediamente 90 metri l’uno dall’altro. La galleria superiore si incunea nella montagna e presenta folta vegetazione e molte piccole cascate del fiume che precipita verso la Valle del Volturno. Quella inferiore è scavata nella roccia dalle acque del Lete. Le grotte, da tempo, richiamano speleologi e studiosi che hanno decantato sia la bellezza sia le asperità dei paesaggi, rendendole molto interessanti e a tratti uniche, specie alla fine del percorso con lo sbocco sulla veduta della Valle di Prata Sannita. Le scale di metallo da pochi anni messe non servono solo a facilitare le frotte di turisti, ma a facilitare la presenza culturale dei medesimi che vanno accompagnati, almeno dopo la lettura di una didascalia non minuta. L’ideale è avere un direttore museale capace e dinamico. A “Piscupanni” c’è una piccola ma importante grotta che si può rendere accessibile da una parte all’altra della montagna con belvedere soprattutto sull’altissima valle del fiume Sava. Anche qua un pannello esplicativo dovrebbe indicare bene la grotta e la parete spettacolare. La Falesia di Piscupanni (il toponimo è diffuso in molti comuni matesini e si rifà a morti trovati là, forse alcuni erano anche vittime dei briganti sia prima che dopo l’unità d’Italia) lambisce a sinistra il piccolo fiume Sava. Tale parete imponente penso che andasse lasciata così com’era, ma la frenesia degli Amministratori autorizzarono addirittura 12 vie d’arrampicata aperte nel 2012. Poi gli sportivi campani hanno potuto chiodare ed esibirsi a volontà con il patrocinio del Comune di Letino. La chiodatura della falesia è stata a cura di Stefano Dati e R. Quaranta con autorizzazione comunale di affidamento dei lavori ad una dell’associazioni uisp che da anni cura la promozione territoriale turistica e sportiva della Campania. In agosto 2010 a Letino, c’è stata la manifestazione “la Notte della Patata” con degustazione del tipico prodotto di Letino, che è di buona qualità forse più di San Gregorio M., pure patate rinomate. Festeggiamenti i letinesi ne hanno fatti anche per il Centenario della Costruzione della Diga di Letino, una delle più antiche dighe in pietra presenti in Italia. Letino è un comune d’alta montagna, povero di ricche risorse, ma ha un paesaggio superbo, molti boschi di faggio e un’indole vivace dei letinesi, con alta sacralità dell’ospite e pronti al dialogo non solo con i turisti che cercano una sana e spendibile informazione.
Resta pur sempre valido il singolo commento del lettore di Matese News Informazione, libero da eccessivi condizionamenti e ideologie, a volte, a mio giudizio, dettate da superficialità d’analisi come quella della mia, suppongo giovanissima, compaesana. G. Pace
Gentilissimo signor Pace, a Letino non c’è bisogno di richiamare nessuno. Le piccole comunità devono puntare a crescere in densità morale più che in termini economici, coi soldi portati con la pala da “turisti”. Le piccole comunità dell’Italia interna devono saper accogliere i viaggiatori, portati in loco da nessuno spot pubblicitario bensì dalla spassionato volontà di intrecciare rapporti umani intern-nazionali.
Il paesaggio non è una merce, il fiume Lete non è una merce, il costume dismesso non è una merce, il lascito infrastrutturale delle epoche passate non è una merce. Finiamola con l’elogio del turismo mordi e fuggi che trasforma una solida realtà, che tenta in tutti i modi di resistere allo svuotamento demografico, in una vetrinetta addobbata. Nei paesi vivono persone umane con bisogni umani. Il turismo da lei descritto porta solo distruzione, che si traduce in patrimonializzazione di idee inesistente. Per sopravvivere al globalismo e alle migrazioni da lei citate non serve a nulla invocare più turismo. Serve cognizione delle cause storico economiche che lei ha dimostrato di non avere. La sua visione sul concetto di “tradizione”, “evoluzione sociale”, “uccelli che tirano al nido”, trasformano le tante realtà dell’Italia interna in un mondo orientalizzato, abitato da personaggi privi di ogni soffio vitale, chiusi tra le loro montagne, incapaci di rispondere alle sfide del mondo moderno. Il suo articolo fornisce uno sguardo paternalistico di chi crede di avere la soluzione (peggiore) allo svuotamento dei paesi: il turismo. Non c’è idea più pericolosa. Ai paesi non serve il turismo, inteso come panacea di ongi male. È all’Italia che serve un governo che si renda conto delle realtà storico geografiche chiamate PAESI. Servono politiche strutturali che permettano la sopravvivenza di ogni comunità. Servono politiche che mettano le persone in grado di scegliere liberamente se restare o andare. I migranti che lei cita con tanta malinconia questa scelta non l’avevano. Alle amministrazioni non è dato il potere necessario per procedere su questa via, senza il sostegno del governo nazionale. I suoi paragoni con le amministrazioni politiche di 50 anni or sono, sono sintomo di una ignoranza deliberata circa il cambiamento dello scenario politico internazionale. Lei vorrebbe che le cose tornassero come quando in Italia vi era la prima repubblica. Lei crede che a Letino vi sia ancora la mentalità delle donne che andavano con gli scarpitti, sintomo di una maggiore “tradizione” e dunque “isolamento”. Ha constatato come le distanze tra i paesi ed i maggiori centri metropolitani siano così corte da essere quasi inesistenti nel 2019? Faccia il piacere di tenere per sé le sue considerazioni pericolose e distorte sul mondo contemporaneo, il quale è tale grazie anche alle realtà paesane dell’Italia Interna.