TEANO. “Lui, il Figlio”: audace e molto originale la rappresentazione teatrale svoltasi sabato scorso nella Chiesa dell’Annunziata, in occasione della IV edizione del festival Teatri d’anima, a cura di Angelo Maiello.

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Ogni monologo, reso unico dalle espressioni del dialetto napoletano, è stato come uno scrigno che, aprendosi, ha evocato immagini e suggestioni, provocando vibrazioni nell’anima…

di Carmen Melese

Il Nuovo Teatro Sanità di Napoli ha presentato, su progetto e regia di Mario Gelardi, “Lui, il Figlio”, composizione di più autori, ispirata a “Gesù figlio dell’uomo” di Khalil Gibran. Otto bravissimi interpreti, in una scenografia di ceri tremolanti adagiati sui gradini di marmo, hanno consegnato a un pubblico raccolto e attento, brandelli di umanità sofferta e redenta dall’inquietante e straordinaria vicenda del Cristo, amore fatto carne. Ogni monologo, reso unico dalle espressioni del dialetto napoletano, è stato come uno scrigno che, aprendosi, ha evocato immagini e suggestioni, provocando vibrazioni nell’anima… Mai, prima d’ora, ho visto, come in questo spettacolo, accorciarsi tanto la distanza tra attore e spettatore. Di fatto, eravamo tutti interpellati e coinvolti con le nostre esperienze di vita e la nostra sensibilità, in un’alternanza di compassione e viltà, fedeltà e rinnegamento. Ognuno di noi era, a un tempo, apostolo fedele o traditore come Giuda; pronto a scoppiare in lacrime, come Giovanni all’apparizione di Gesù risorto, oppure ostinato nell’incredulità, come Tommaso. Quanti increduli ci sono ancora tra noi, mi sono chiesta, mentre sulla scena, come in un tribunale, si susseguivano le deposizioni dei testimoni. Quanti sbandano ancora in questo mondo con i loro corpi, alla ricerca di una certezza che passi attraverso occhi e mani? Tommaso, prima di accogliere l’esortazione “Sii credente!” che gli rivolge Gesù, ha bisogno di essere toccato sulla spalla; come un bambino che, attraverso una tazza di latte caldo, vuole ricevere, prima di tutto, conferma dell’amore materno. Ma alla fine, come i suoi compagni, anche Tommaso ravvisa in Cristo la salvezza e la strada per raggiungerla. Splendide le interpreti femminili, assai diverse tra loro, ma accomunate dal filo d’oro della maternità. La prima, madre del Battista, soffre per il distacco dal figlio che lascia ogni cosa per seguire il Maestro; la seconda è finalmente madre, dopo anni di interminabile attesa; infine Maria, donna dell’ascolto, è avvolta nella tenerezza di Dio, che l’ha prescelta per realizzare e custodire il mistero dell’incarnazione. Il dolore del mondo sembra, così, essere racchiuso tra un grembo che non riesce a generare vita e un grembo che genera frutto, dal quale però ci si dovrà inevitabilmente separare. Maria reprime con difficoltà il pianto davanti al Figlio suo, denudato sulla croce, durante l’esecuzione trasformata in spettacolo; ma dal dolore lancinante che le squarcia il petto, emerge, come fiore nel deserto, la consapevolezza della sua chiamata radicale: lei continuerà ad essere madre del Figlio suo, e, paradosso dell’amore, anche dei suoi uccisori. Indimenticabile l’immagine di questa bimba, che, coi suoi respiri simili a onde, trasforma in mare la terra arida del grembo di sua madre. Un figlio è un dono, e i doni sono leggeri come respiri.

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